Quando la vita è appesa a un filo, quel filo diventa d’oro.
Tutte le vite sono attraversate da questa metafora, penso al mito greco delle tre Parche, sebbene non si sia sempre coscienti, durante il tempo della giovinezza o del benessere o della progettualità, dell’universale esperienza di precarietà così come non si riesce sempre ad osservare che quel filo d’oro disegna ricami.
L’ho inseguito a lungo in questi anni: è stata la Vita stessa ad obbligarmi a prenderne coscienza e, infine, negli anni della malattia, ad aggrapparmi ad esso come un bambino al suo aquilone.
Inseguirlo mi ha reso nomade e in cerca di continui segni e segnali per afferrare la mia storia e non farmela portar via dal non-senso, dalla depressione, dal senso di sconfitta.
É il nomadismo del cuore che mi ha impedito di attaccarmi, non senza lacerazioni, ai progetti avviati e ogni volta dissolti a causa di una fragilità fisica che poi è diventata malattia aggressiva e poi “presenza del rischio” e mi ha condotto dunque sui sentieri dell’abbandono e della fiducia.
Oggi contemplo degli splendidi disegni che il filo ha elaborato tra un evento e l’altro… e, dopo oltre trentacinque anni, ritrovo che la traccia del filo porta a un antico punto di partenza, a una antica domanda che da bambina undicenne mi è sgorgata dal cuore: cosa è mai Dio e cosa è mai la Vita?
Sì, ho fatto, sto facendo esperienza di Dio perché vivo la Vita e la guardo fiorire anche nel deserto.
E nel deserto non ti aspetti certo fiumi e cascate… eppure che gioia quando un’oasi si apre alla vista e ti viene incontro la speranza.
Ho dovuto camminare anni per capire il valore della vita e la sua meraviglia. Oggi che sono a rischio altissimo di perderla, in tempi che non dovrebbero essere segnati mai da nessun Dio per una giovane madre con figli piccoli, ebbene, oggi essa mi appare straordinaria.
Gli orientali direbbero che la vedo con il “terzo occhio”, i cristiani con la “luce della Grazia”, gli atei con il coraggio e la forza di un adulto.
Infatti così mi sento: un adulto, una persona cresciuta che non ha bisogno di rimuovere la coscienza dalla Realtà. So bene quale sia la realtà di un malato, il dolore di un bambino, la fine di un progetto ma so che c’è altro da conoscere e esplorare… il nomade non mette su casa e non definisce le mura e gli arredi.
Ecco, io non voglio proprio definire nulla, neppure la morte. Invece mi apro all’insondabile e al rischio.
Ho sperimentato negli ultimi anni che il filo d’oro conduce alla pienezza dell’esperienza se lo lasci fare.
Non solo all’amore famigliare, di un uomo o di un figlio, ma all’amore gratuito dello sconosciuto.
Così, seguendo le tracce, sono giunta a costruire delle relazioni con molte persone, attraverso la scrittura o semplicemente lasciando la porta aperta alla relazione, con uomini e donne in cerca del divino o pregne di divino e con inaspettate presenze che mi hanno fatto regali solo ed essenzialmente per generosità e voglia di vivere.
Se si guarda senza attenzione, l’incontro con gli altri sembra ordinario, se non addirittura un accidente o un urtare di aminoacidi.
Costretta a volare con l’aquilone della fragilità, esposta al grande dolore della fine della vita, ho visto quegli stessi uomini e quelle stesse donne come un dono inestimabile da non perdere, in mezzo agli “affari” del mondo.
Ho chiesto a loro, nel cuore, di diventare portatori di un messaggio.
E così, come dice Raimon Panikkar, “lo sconosciuto può essere un angelo”.
Potrei raccontare tante avventure fatte di incontri, parole scritte, libri regalati, inviti inaspettati… Tutto è stato rilegato con un filo, il mio filo, dal quale emerge, con chiara bellezza, che le oasi ci attendono a ogni passo, a ogni cammino, nonostante il penare e il perdurare della fatica e dell’arsura.
Quel che resta per me è quel filo d’oro che lega tutti gli eventi e che mi conduce, oggi lo comprendo, alla chiarezza e alla percezione sana della vita: ma qui e ora, non nell’eterno.
Anzi, l’eterno non è un mio problema, non mi riguarda, io sono una creatura di finitudine, semmai riguarda un Dio che vorrà farmene dono.
A me interessa la vita qui, dove sono ora e mi interessa viverla bene, viverla dignitosamente e rafforzarla di relazioni che mi insegnino a resistere e mi accompagnino nell’esperienza.
E la mia è un’esperienza di guarigione.
È una richiesta che faccio ogni giorno alla Vita.
C’è una danza nel mondo che va dall’India all’America di Yogananda, a un piccolo villaggio del Salvador, nelle stanze laiche di amici inglesi, ai monasteri della Sicilia e dell’Umbria, alle parrocchie vive della Puglia, alle piccole chiese sparse nel nordest d’Italia, nel cuore vivo della rete e degli amici incontrati per caso, una danza che alza all’unisono una voce di richiesta e di preghiera: guarire Angela.
Lo chiedo a tutti, con un sorriso, con allegria: aiutatemi a mettere in moto l’energia che “muove le stelle” come direbbe Dante, energia che sono arrivata a chiedere anche ad amici africani, rifugiati eritrei, persino ai poveri che avrebbero molto da chiedere.
La mia guarigione è insieme a loro perché tutti riscopriamo la voglia di amare e di riconoscere il valore di ciò che abbiamo.
Il nomadismo del cuore mi ha portato il mondo.
Volando appesa all’aquilone della fragilità, ho conosciuto la leggerezza… ci muove la brezza leggera dello Spirito…
(Angela, Carate Brianza)